I disturbi dello spettro psicotico sono caratterizzati da una frammentazione del senso di Sé, la quale porta l’individuo a non percepire più un Sé unitario, integro e presente.
I sintomi che si evidenziano sono per lo più deliri, allucinazioni e linguaggio disorganizzato, in una mente alla deriva dove si è perso il filo che lega l’individuo alla realtà esterna e il terapeuta deve rappresentarsi un po’ come Caronte, un po’ come Dante: ossia pronto ad essere colui che aiuta il paziente a permettergli di ritrovare quel filo, pronto altresì ad immergersi, lui per primo, nell’inferno della mente del proprio assistito sconvolta da un’angoscia pantoclastica, tentando di decifrare le sue complesse e sempre mutevoli metafore, in una narrativa maggiormente coerente e comprensibile.
Intraprendere una relazione o, a maggior ragione, una terapia con persone che ne sono affette, sarà una sfida difficile e delicatissima perché se la comunicazione e la costruzione di un rapporto sono l’incontro tra due menti e due cuori, mi piace definirli così, entrare in un mondo così diverso dal nostro è un arduo compito per chi non vive le stesse drammatiche esperienze, perché il soggetto che vive una penosa deframmentazione del Sé sarà in seria difficoltà nel cercare di ritrovare coerenza nella sua narrativa personale e di conseguenza, ad entrare in contatto con il terapeuta.
Per fare ciò gli ingredienti fondamentali sono l’ascolto e la comprensione.
Comprendere non significa avere in qualche modo provato esperienze simili, ma prendere-con, includere, “entrare dentro al mondo dell’altro” abbandonando, per un momento, il nostro metro di riferimento, i nostri credo, le nostre emozioni, per prendere invece a prestito quelle dell’individuo che stiamo supportando.
E’ un grande esercizio di abbandono nei confronti “dell’altro”, specie se il paziente è così diverso da noi nella rappresentazione di Sé e di ciò che lo circonda, da richiedere al terapeuta di sapere sì entrare nel suo universo interno, ma ben consapevole di dover tenere il timone per non perdersi con lui dentro alle sue sofferenze.
E’ un equilibrio difficile da trovare. Sia perché è più facile cadere nella trappola dell’invalidazione emotiva di tutto ciò che l’individuo sta vivendo, con biasimo o scherno, sia talvolta per paura o per mancanza di autentica comprensione delle sue angosce; ed ecco che, se si arriva a tale punto, la comunicazione si interrompe.
Gli ingredienti fondamentali perché vi sia uno scambio efficace ed immedesimato con pazienti che soffrono di psicosi sono: la relazione, l’assenza di giudizio ed il decentramento dalla nostra realtà.
Questi ultimi sono ingredienti base per la comunicazione con qualunque persona, al fine di garantirle empatia ed utile supporto. Tuttavia, allo stesso tempo, non sono ingredienti facili da utilizzare, benché strettamente necessari e da tenere sempre in considerazione con individui che vivono una realtà cosi diversa dalla nostra .
Non possiamo credere di incontrarci a metà strada nella comunicazione con queste persone, o pensare che loro ci possano aiutare, in un qualche modo, venendo verso di noi con spiegazioni chiare e coerenti sui loro vissuti interni, passati e presenti. Ma per il terapeuta lo sforzo maggiore sarà quello di dover sapere essere pronto e capace di decifrare i tanti simboli che, come in un rebus, ci pone il paziente che soffre di psicosi semplicemente agendo sé stesso.
Per cui bizzarrie, incoerenza nell’eloquio, incongruenza emotiva, mille realtà fuggevoli e disordinate vivono e si affollano dentro l’individuo psicotico che, con fatica, cerca di combattere il lutto entro il quale vive o a cui si è abbandonato. E’ compito del terapeuta avvicinarsi al suo buio, con una candela in mano, chiedendo il “permesso”, per poter fare luce e ritrovare la persona che c’è dentro: aiutandola a mettere insieme i pezzi, o tenendole la mano per rassicurarla e alleviare l’angoscia nella quale è immersa, creando così un contatto.
Riuscire ad entrare in relazione, infatti, è già di per sé un grande risultato perché l’individuo è spesso isolato dal resto del mondo, essendo impossibilitato a parlare la lingua dei più. Per questo motivo la sola relazione è indubbiamente un grande risultato; l’incontro con l’altro farà sì che il paziente possa sentirsi meno spaventato, meno solo e in comunicazione con la realtà in cui noi viviamo, ma che egli ha perso.
Dott.ssa Chiara Satanassi
Psicologa e Psicoterapeuta a Bologna
Psicologa Psicoterapeuta
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Iscritta all'Ordine degli Psicologi e degli Psicoterapeuti della Regione Emilia Romagna